Paola Mongelli. “Quale terra”
Maria Teresa Roberto
Annihilating all that’s made
To a green thought in a green shade
Annullando tutto ciò che esiste
In un verde pensiero in una verde ombra
Andrew Marvell (1621-1678), The Garden
Quale terra è il titolo della nuova serie di opere di Paola Mongelli, ispirato da un aforisma dello psichiatra e scrittore Marco Ercolani: “Quale terra premerò, nel passo successivo? E sarà proprio una terra?” (dalla raccolta Sentinella, pubblicata da Carta Bianca nel 2011).
La serie è caratterizzata da due elementi tecnici di novità, l’uso del digitale e quello del colore, ma soprattutto si colloca lungo l’asse di una nuova intenzionalità.
L’atto del fotografare vi assume infatti una valenza che ha a che vedere con la pluralità dei sensi più che con la sola vista, con l’esplorazione di sé e del mondo più che con la costruzione di singole immagini. Il passaggio dal bianco e nero al colore assume innanzitutto questo significato: non volumi e contorni misurati e definiti, scolpiti nello spazio secondo una visione stereometrica, ma distanze percepite o intuite, con sfumature e velature cromatiche ricche di risonanze pittoriche, incaricate di suggerire profondità, sfondi, linee di galleggiamento dello sguardo.
Ogni scatto documenta, o meglio accompagna, un passo, e l’immagine si identifica con questa azione, più che non rappresentarla. Ruotando di 45° verso terra la sua macchina fotografica, così da cogliere, quasi alla cieca, il movimento in atto, Paola Mongelli ha rinunciato al tradizionale asse prospettico, e invece di costruire un punto di vista sul mondo ha usato l’obiettivo come uno strumento di autoanalisi. L’atto del fotografare è entrato così in rapporto con la funzione propriocettiva, con quella capacità di percepire e riconoscere la posizione del nostro corpo nello spazio che costantemente, e silenziosamente, ci accompagna.
Ne è nata una sequenza, che potrebbe essere virtualmente infinita, di autoritratti indefiniti e aperti di una soggettività in cammino, in cui sfumano l’una nell’altra la fisicità del corpo e la provvisorietà della sua ombra.
Gli aspetti performativi che si sono affacciati in molti dei progetti e delle attività recenti di Paola Mongelli, sono ricondotti qui alla loro radice individuale e primaria. Parafrasando la volontà di Merleau Ponty di riportare il corpo all’interno del discorso filosofico, per superare una nozione di coscienza basata solo sul pensiero, si potrebbe affermare che queste immagini propongono il superamento di un’idea di fotografia identificata nello sguardo cartesiano, per aprirla a una relazione più intima e profonda con quell’“altro sé” che è il nostro corpo organico, che con la sua presenza costantemente attiva nel mondo fisico ci mette in comunicazione con lo spazio e con il tempo.
Resta aperto l‘interrogativo di partenza: “Quale terra?” Citando il maestro zen Linji, l’artista ricorda che “Il vero miracolo non è volare in aria o camminare sulle acque, ma camminare sulla terra”, ma allo stesso tempo parla del vuoto e dell’impermanenza come di una fondamentale premessa creativa.
Queste fotografie mettono tra parentesi la realtà esterna, e in alcuni casi la dissolvono nel colore. Per chi le osserva, quel mondo liquido di piani sfuggenti, in cui l’assialità verticale del corpo sembra ruotare, oscillare, ribaltarsi, e i passi muoversi su piani soffici svuotati di materia, appare affrancato dai vincoli della gravità, e fa tornare alla memoria, in versi e in musica, la felice metafora del camminare sulla luna: “Walking on the moon/Feet they hardly touch the ground/Walking on the moon/My feet don’t hardly make no sound/Walking on the moon/We could walk forever/Walking on the moon/We could live together” (Sting, Walking on the Moon, 1979).